Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia di Monte Gauro

343 a.C.

Il console

Marco Valerio Corvo, (lat. M. Valerius Maximus Corvus)

Console (348 a. C.); il soprannome gli venne, si narra, dall'aiuto che un corvo gli diede in un duello con un gigantesco Gallo (349), che Valerio riuscì a uccidere. Fu sei volte console, più volte dittatore. Prese (346) Satricum e vinse i Volsci, poi (343) batté i Sanniti presso il Gauro e Suessola e (301) trionfò su Marsi ed Etruschi. Promulgò (300) la lex Valeria de provocatione che vietava le pene corporali o di morte contro un cittadino romano senza giudizio dell'assemblea popolare. Sarebbe vissuto più di 100 anni. Le sue imprese sembrano esagerate dall'annalista Valerio Anziate.

La genesi

Da questo momento bisogna parlare di conflitti di ben altre proporzioni sia per le forze messe in campo dai nemici sia per la lontananza della loro terra di provenienza e per la durata di quelle guerre. Nel corso dell'anno si presero infatti le armi contro i Sanniti, un popolo potente per risorse e per dotazioni militari. Dopo la guerra, dall'esito incerto, con i Sanniti, si combatté contro Pirro e dopo di lui fu la volta dei Cartaginesi. Quale serie di formidabili eventi! Quante volte i Romani giunsero a rischiare il massimo perché lo Stato potesse essere innalzato alla grandezza che ora a stento si regge! E pensare che la causa della guerra tra Sanniti e Romani - due popoli uniti in passato da legami di alleanza e amicizia - fu un motivo esterno di cui essi non furono responsabili. Poiché i Sanniti avevano ingiustamente attaccato i Sidicini profittando della loro superiorità, i Sidicini, costretti nella condizione di inferiori a chiedere aiuto a un popolo con maggiori risorse, si rivolsero ai Campani. Ma questi ultimi fornirono agli alleati un aiuto più nominale che reale: abituati com'erano a una molle vita di agiatezze, i Campani vennero battuti nel territorio dei Sidicini da una popolazione indurita dall'uso delle armi e si videro precipitare addosso l'intero peso della guerra. E infatti i Sanniti, senza più dare alcuna importanza ai Sidicini, assalirono i Campani, cioè la vera roccaforte dei loro vicini, sui quali avrebbero ottenuto una facile vittoria, con un bottino più ricco e maggior gloria: dopo aver occupato le alture del Tifata (situate proprio sopra Capua) lasciandovi un agguerrito presidio, di là si riversarono in assetto di battaglia nella pianura che si trova tra Capua e il Tifata. Fu in quel punto che si combatté una seconda battaglia: sconfitti e ricacciati all'interno delle mura, i Campani, dopo che il fiore delle loro truppe era stato fatto a pezzi e avevano ormai perso ogni speranza, furono costretti a chiedere aiuto ai Romani. Gli ambasciatori dei Campani introdotti al cospetto del senato, pronunciarono un discorso di questo tenore: "Il popolo campano ci ha inviati a voi, senatori, come ambasciatori, per chiedervi di concederci la vostra eterna amicizia e un aiuto nella circostanza presente. Se ve l'avessimo chiesto in un momento di prosperità, voi ce l'avreste concesso ben più rapidamente, fondandovi però su vincoli meno saldi. In tal caso, memori di essere entrati in rapporti amichevoli con voi su un piano di assoluta parità, forse saremmo stati vostri amici come lo siamo adesso, ma meno vincolati e sottomessi a voi. Ma ora, conquistati dalla vostra umanità nei nostri confronti e protetti dal vostro aiuto in questa difficile congiuntura, dobbiamo rendere il giusto onore anche al beneficio ottenuto, per non dare l'impressione di essere ingrati e indegni di ogni soccorso divino e umano. Ma non pensiamo neppure, per Ercole, che il fatto che i Sanniti siano diventati vostri amici e alleati prima di noi, possa costituire un ostacolo all'essere accolti nel novero dei vostri amici, quanto piuttosto che la cosa porti quel popolo ad avere su di noi un vantaggio in relazione alla priorità e al grado di onore. E infatti nel vostro trattato con i Sanniti non c'erano clausole che impedissero la stipulazione di altri trattati. Un motivo sufficientemente giusto per stringere legami di amicizia voi avete sempre ritenuto fosse il desiderare che entrassero nel novero dei vostri amici quanti si rivolgevano a voi: noi Campani, anche se la disgrazia presente non ci consente un linguaggio troppo altezzoso, non essendo secondi a nessuno - salvo che a voi - per lo splendore delle città e per la fertilità dei campi, ora che ci associamo a voi, apportiamo, come è nostra opinione, un incremento non trascurabile al vostro benessere. Ogni qual volta Equi e Volsci, eterni nemici di questa città, si muoveranno, noi li incalzeremo alle spalle. E ciò che voi avrete fatto per primi per la nostra sopravvivenza, noi lo faremo sempre per la vostra potenza e la vostra gloria. Non appena avrete assoggettato i popoli stanziati tra i nostri e i vostri territori - il vostro valore e la vostra buona sorte garantiscono che presto avverrà -, il vostro potere si estenderà senza interruzioni fino alla nostra terra. è triste e penoso ciò che la nostra disgrazia ci costringe ad ammettere: la situazione, senatori, è a una svolta: noi Campani finiremo nella mani di nemici oppure di amici. Se ci proteggerete, saremo vostri; se invece ci abbandonerete, saremo dei Sanniti. Considerate dunque se è meglio che Capua e l'intera Campania vadano ad accrescere il potere di Roma oppure quello dei Sanniti. è giusto che la vostra misericordia e la vostra disponibilità ad aiutare siano aperte a tutti, ma in special modo a quanti, per aver offerto aiuto superiore alle proprie forze ad altri che lo imploravano, si sono venuti a trovare essi stessi nella medesima necessità. E anche se apparentemente abbiamo combattuto per i Sidicini, mentre in realtà combattevamo per noi, lo abbiamo fatto vedendo un popolo limitrofo crudelmente assalito dal brigantaggio dei Sanniti, e sentendoci minacciati da quell'incendio non appena la conflagrazione avesse inghiottito i Sidicini. E infatti i Sanniti sono venuti ad attaccarci proprio in questo momento non per il risentimento suscitato da un'offesa, quanto piuttosto per la gioia che sia stato loro offerto un pretesto per farlo. Altrimenti, se questa fosse solo una vendetta e non un'occasione buona per placare la loro bramosia, non sarebbe stato sufficiente ai Sanniti aver decimato le nostre legioni una prima volta nel territorio dei Sidicini e poi in Campania? Quale furia è mai questa, se non basta il sangue versato da due eserciti per placarla? A tutto questo aggiungete poi le razzie nei campi, il bottino in uomini e animali, gli incendi e le distruzioni delle fattorie e la devastazione seminata ovunque. Possibile che tutto questo non abbia soddisfatto la loro ira? Ma è la loro bramosia che va saziata! è quel sentimento che li spinge a occupare Capua, e a desiderare che la più bella delle città vada in rovina o finisca in mano loro. Conquistatela voi, o Romani, con la vostra generosità, piuttosto che permettere a quella gente di impossessarsene con l'inganno. Non ci rivolgiamo a un popolo abituato a rifiutare le guerre quando sono giuste. Tuttavia, se solo metterete in campo il vostro aiuto, pensiamo che non avrete nemmeno bisogno di ricorrere alle armi. Il nostro risentimento nei confronti dei Sanniti ha raggiunto un punto oltre il quale non può andare: per questo, anche solo l'ombra del vostro aiuto, o Romani, è in grado di proteggerci e qualunque cosa d'ora in poi avremo, qualunque cosa diventeremo, noi la considereremo interamente vostra. Le terre della Campania verranno arate per voi, e per voi si affolleranno le strade di Capua. E voi sarete per noi i fondatori, i genitori, gli dei immortali. Nessuna vostra colonia ci saprà superare quanto a obbedienza e lealtà. Acconsentite, senatori, col vostro cenno e la vostra volontà invitta alle preghiere dei Campani, dateci la speranza che la nostra città possa avere un domani. Forse non immaginate quale folla, di ogni genere, abbia accompagnato la nostra partenza; come l'abbiamo lasciata, a piangere e pregare; in quale ansia siano adesso il senato, il popolo campano, le nostre mogli e i nostri figli! Saranno tutti in piedi, certamente, intorno alle porte, con gli occhi fissi verso la strada che porta a Roma! Che messaggio ci ordinate, senatori, di portare a quegli animi in preda al dubbio e all'incertezza? Una risposta è salvezza, vittoria, luce e libertà. L'altra... fa orrore il solo pensiero di ciò che potrebbe portare. Perciò prendete una decisione sulla nostra sorte, tenendo presente che o saremo vostri alleati e amici, o non esisteremo più del tutto".

Agli ambasciatori fu chiesto di ritirarsi, mentre il senato si riuniva per considerare la loro richiesta. Anche se la maggior parte dei senatori pensava che la più grande e ricca città dell'Italia, con le sue campagne fertilissime e prospicienti al mare, avrebbe potuto essere - in periodi di carestia - un granaio per il popolo romano, ciò non ostante si diede più peso alla lealtà che alla considerazione dell'utile, così che il senato affidò al console il compito di rispondere agli ambasciatori in questi termini: "Il senato ritiene, o Campani, che siate degni di ottenere aiuto. Ma stringere rapporti di amicizia con voi non deve significare la violazione di amicizie e alleanze precedentemente contratte. I Sanniti sono legati a noi da un trattato: per questo non siamo in grado di intervenire militarmente al vostro fianco impugnando contro i Sanniti quelle armi che sarebbero un'offesa prima ancora agli dei che agli uomini. Com'è però giusto e sacrosanto, invieremo degli ambasciatori ai nostri amici ed alleati con il compito di invitarli a non farvi alcun male". A queste parole i capi della delegazione campana risposero attenendosi alle istruzioni ricevute in patria e replicarono così: "Visto che rifiutate di far ricorso a un legittimo uso della forza per opporvi alla violenza e all'ingiustizia perpetrate nei confronti di ciò che ci appartiene, proteggerete almeno quanto appartiene a voi. Di conseguenza noi affidiamo alla vostra autorità e a quella del popolo romano il popolo della Campania e la città di Capua, le campagne, i santuari degli dei e tutte le cose sacre e profane: qualunque cosa affronteremo da questo momento in poi, la affronteremo come vostri sudditi". Pronunciando queste parole, con le mani tese verso il console e il volto rigato dalle lacrime, si prostrarono a terra nel vestibolo della curia. I senatori rimasero colpiti dalle vicissitudini delle sorti umane, al vedere che quel popolo ricco e grandioso, conosciuto ovunque per il fasto e la superbia, a cui poco prima i vicini avevano chiesto aiuto, adesso era abbattuto al punto di consegnare se stesso con tutti i propri averi all'autorità di altri. Decisero che era ormai una questione d'onore non tradire chi si era consegnato in loro potere. E non ritenevano sarebbe stata cosa giusta se i Sanniti avessero attaccato un territorio e una città che, con una vera e propria resa, erano diventati proprietà del popolo romano. Perciò si decise di inviare immediatamente ai Sanniti degli ambasciatori, ai quali fu data istruzione di riferire la richiesta fatta dai Campani, la risposta del senato, non immemore dell'amicizia coi Sanniti stessi, infine l'avvenuta resa. Sarebbe stato poi loro compito chiedere, in nome dell'amicizia e dell'alleanza che univa i due popoli, di risparmiare quella gente volontariamente sottomessasi a Roma e di astenersi dall'effettuare incursioni armate in quel territorio che ora apparteneva al popolo romano. Se questa cauta condotta non avesse sortito risultato, gli ambasciatori avrebbero dovuto intimare ai Sanniti - a nome del senato e del popolo romano - di stare lontani da Capua e dal territorio della Campania. Ma i Sanniti, dopo aver sentito gli inviati esporre queste richieste di fronte all'assemblea, furono così arroganti che non soltanto risposero di essere determinati a condurre quella guerra, ma i loro magistrati uscirono dalla curia mentre gli ambasciatori erano ancora là in piedi e convocarono i prefetti delle coorti ordinando loro ad alta voce di prepararsi a effettuare immediatamente un'incursione nel territorio dei Campani.

Quando la delegazione tornò a Roma riferendo l'accaduto, i senatori, passando in secondo piano tutti gli altri affari di Stato, inviarono i feziali per chiedere riparazione. Ma siccome questi ultimi non riuscirono a ottenere quanto preteso, il senato fece dichiarare guerra ai Sanniti secondo la formula di rito, stabilendo anche di far ratificare quanto prima dal popolo questo provvedimento. E avendo ricevuto l'approvazione, i consoli partirono alla testa di due eserciti, Valerio diretto in Campania e Cornelio nel Sannio; il primo si accampò nei pressi del monte Gauro, il secondo vicino a Saticola. Le legioni dei Sanniti si rivolsero prima contro Valerio, perché pensavano che in quella direzione si sarebbe concentrato il grosso delle operazioni. Ma nel contempo erano spinti dal risentimento nei confronti dei Campani, i quali erano stati così solleciti prima a portare aiuto, poi a chiederlo contro di loro. Non appena avvistarono l'accampamento romano, non ci fu Sannita che non chiedesse baldanzosamente agli ufficiali di dare il segnale di battaglia. La loro convinzione era che l'intervento dei Romani a fianco dei Campani avrebbe avuto lo stesso successo di quello dei Campani a sostegno dei Sidicini. Valerio, avendo indugiato solo qualche giorno per saggiare la consistenza del nemico in scaramucce di poco conto, diede il segnale di battaglia, non senza aver esortato con poche parole i suoi a non lasciarsi intimorire da quella nuova guerra combattuta contro nuovi nemici. Quanto pi? le loro armi si allontanavano da Roma, tanto più imbelli erano le popolazioni che avrebbero incontrato. Non giudicassero il valore dei Sanniti in base alle disfatte inflitte a Sidicini e Campani. Quali che fossero i valori in campo, era inevitabile che una delle due parti dovesse soccombere. Quanto ai Campani, non c'erano dubbi che essi fossero stati vinti più per l'eccessiva dissolutezza e mollezza della vita che conducevano piuttosto che per la forza del nemico. E poi che cos'erano mai le due guerre vinte dai Sanniti in tanti secoli a confronto delle tante gesta gloriose del popolo romano, il cui numero di trionfi in guerra era quasi pari a quello degli anni trascorsi dalla fondazione di Roma? Il popolo romano che aveva soggiogato con le armi tutte le popolazioni stanziate nelle zone circostanti - Sabini, Etruschi, Latini, Ernici, Equi, Volsci, Aurunci -, e che dopo aver battuto i Galli in tante battaglie di terra, alla fine li aveva costretti a fuggire verso il mare alle loro navi? Ora che stavano per gettarsi nella mischia, ciascuno degli uomini avrebbe dovuto farlo fidando non solo sulla propria capacità militare e sulla gloria del passato, ma anche ricordandosi sotto il comando e gli auspici di quale soldato stavano per affrontare la battaglia, e chiedersi se quell'uomo fosse uno che meritava di essere ascoltato soltanto perché era un valido oratore, uno bellicoso a parole ma senza esperienza militare, oppure uno che sapeva maneggiare le armi di persona, era in grado di avanzare oltre la linea degli antesignani e di stare nel pieno della mischia. "Voglio, o soldati, che seguiate le mie azioni", disse, "non le mie parole, e che a me chiediate non soltanto ordini, ma anche l'esempio. Non è stato grazie ai giochi politici e ai complotti tanto abituali tra i nobili, ma con questa mano destra che io sono riuscito a conquistarmi tre consolati e i più alti elogi. Ci fu un tempo in cui si sarebbe potuto dire: "Tu eri patrizio e discendevi dai liberatori della patria, e la tua famiglia ebbe il consolato lo stesso anno in cui la città vide l'istituzione di quella magistratura!". Ma oggi il consolato è aperto tanto a noi patrizi quanto a voi plebei, ed è ormai un riconoscimento dato al valore e non più, come in passato, alla stirpe. Di conseguenza, o soldati, mirate in ogni circostanza a onori sempre più alti. Anche se mi avete voluto dare - con l'approvazione degli dei - questo soprannome di Corvino, tuttavia non mi sono dimenticato di quello di Publicola attribuito in passato alla mia famiglia: tanto in patria quanto in guerra, da privato cittadino così come nelle magistrature importanti e in quelle di minor conto, sia da tribuno che da console, senza mai allontanarmi dalla stessa linea di comportamento durante i successivi consolati, io ho sempre rispettato e tuttora rispetto la plebe romana. Ma adesso, poiché il momento lo esige, con l'aiuto degli dei cercate insieme a me di ottenere sui Sanniti un trionfo nuovo e mai conquistato prima".

Mai nessun comandante era stato tanto vicino alla truppa, arrivando a condividere il peso del servizio con i soldati semplici. Inoltre, partecipava in maniera cameratesca ai giochi militari, cimentandosi nelle gare di velocità e di forza tra coetanei: la vittoria e la sconfitta le salutava con la stessa espressione del volto, né mai disdegnava di misurarsi con chiunque lo sfidasse. Il suo comportamento era affabile quanto lo richiedevano le circostanze, nei discorsi aveva sempre lo stesso riguardo per la libertà altrui e per la propria dignità. E infine, qualità questa che lo rendeva ancor più popolare, conduceva le magistrature con gli stessi principi con i quali le aveva ottenute. Fu perciò con incredibile prontezza che l'intero esercito accolse le esortazioni del comandante e marciò fuori dall'accampamento. Iniziò una battaglia che, più di ogni altra precedente, vedeva pari speranze e pari forze dalle due parti, e una fiducia in se stessi che non cedeva al disprezzo del nemico. La bellicosità dei Sanniti era accresciuta dalle gesta recenti e dalla doppia vittoria conquistata pochi giorni prima, mentre dalla parte dei Romani stavano quattrocento anni di gloria e una storia trionfale che risaliva ai giorni della fondazione.

La battaglia

Ciò nonostante entrambi gli eserciti erano in ansia all'idea di affrontare un nemico mai visto prima. La battaglia provò quanto essi fossero risoluti, perché combatterono in modo così accanito che per qualche tempo nessuno dei due schieramenti cedette. Allora il console, per incutere paura a un nemico che non riusciva a far indietreggiare con la forza, tentò di gettare lo scompiglio nelle prime file avversarie con una carica di cavalleria. Ma quando si rese conto che l'agitarsi confuso delle schiere impegnate a manovrare in uno spazio ristretto non portava a risultati e non gli permetteva di aprire una breccia tra i nemici, tornato dai soldati della prima linea, scese da cavallo e disse loro: "C'è bisogno di noi fanti, o soldati, per questa manovra! Avanti, quando mi vedrete farmi strada a colpi di spada, in qualunque punto della linea nemica io mi lancerà all'assalto, allo stesso modo ciascuno di voi abbatta tutti quelli che gli si pareranno di fronte. Tutte le lance che ora vedete brillare diritte, saranno distese a terra in una immane carneficina". Aveva appena finito di dire queste cose, che i cavalieri, ottemperando all'ordine del console, si gettarono a briglia sciolta verso le ali, aprendo così la via alle legioni nella parte centrale dello schieramento avversario. Il console fu il primo a lanciarsi contro il nemico, uccidendo il soldato che gli aveva sbarrato il passo. Esaltati a questa vista, i Romani schierati all'ala destra e alla sinistra - ciascuno per se stesso - accesero una mischia memorabile. I Sanniti resistevano, subendo però più colpi di quanti non ne riuscissero a dare. La battaglia infuriava già da tempo: intorno alle insegne dei Sanniti il massacro era spaventoso, ma nessuno dei reparti accennava alla fuga, tanto erano determinati a non farsi sopraffare se non dalla morte. E così i Romani, rendendosi conto che le forze stavano scemando per la stanchezza e che ormai restava ben poca luce, si gettarono contro il nemico carichi di rabbia. Allora ci furono i primi segni di cedimento e le avvisaglie di una rotta imminente; i Sanniti vennero catturati e uccisi (e non ne sarebbero sopravvissuti molti, se la notte non avesse interrotto quella che era una vittoria più che una battaglia).

Le conseguenze

I Romani ammettevano di non aver mai combattuto con un nemico più tenace, mentre i Sanniti, essendo loro stato domandato che cosa li avesse spinti, nella loro determinazione, alla fuga, dicevano di aver visto il fuoco negli occhi dei Romani, e un folle furore nei loro sguardi. Era stato questo, più di ogni altra cosa, a terrorizzarli. E quel panico essi ammisero di averlo provato non solo nelle fasi conclusive della battaglia, ma anche nella fuga che seguì durante la notte. Il giorno seguente i Romani presero l'accampamento deserto, dove si andò a riversare l'intera popolazione di Capua per congratularsi della vittoria.